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Caro Ilario,

prima di scriverti queste poche righe — che vogliono essere soltanto

un augurio paterno per la tua mostra di Ravenna — ho sfogliato

ancora una volta l'album delle riproduzioni a colori dei tuoi quadri

per riportare alla memoria quell'alcunché di assolutamente irripro-

ducibile che trasuda dalle tele originali. Le ho viste nel tuo studio di

Cosenza. Ricordi? Una stanza a pianterreno, pochi arredi, un caval-

ietto e la pulizia di un ambulatorio; che forse lo era, con tutta la

provvisorietà delle cose che devono ancora convivere, amalgamarsi

per rievocare la presenza di un uomo. O di un uccello, se si trattasse

di un nido. Insomma ho avuto in quella stanza l'impressione di un

freddo disequilibrio. Oggi, guardando le riproduzioni dei tuoi

quadri, ho capito che allora — forse agli inizi degli anni Novanta —

tu, uccello migratore, stavi riadattando le cose della tua vita per

diventare pittore. (Forse non tutti sanno che sei un medico che di

notte sente nell'aria il profumo di ragia). Adesso, mentre passo con

gli occhi da un'immagine all'altra mi rendo conto della tua forte,

marcata naturalità di artista. Tolgo le foto dal contenitore, le sollevo,

le sovrappongo, le leggo in sequenza come pagine di un racconto 

ossessivo.

Compio l'arbitrio di isolarne i particolari, un volto, un

cielo notturno, l'orizzontalità dei marosi a spegnersi su improbabili

spiagge. Prendo una foto e la isolo. Per un attimo. Poi, incuriosito

scopro sul retro che si tratta di uno "studio". Lo studio "per un

paesaggio estivo". Sei tu che lo dichiari come se volessi riservarti un

giorno di approfondirne la visione o di riequilibrare qualcosa che al

momento ti era sfuggita. (Provo anch'io talvolta una sorte di verti-

gine davanti ai miei quadri rimasti in sospeso...). E avverto, ecco —

l'ho già detto dentro di me — uno sbandamento impercettibile, ma

fisico. Gli occhi cercano qualcosa che nella sequenza delle altre

decine di foto si ripeteva ritualmente come in un'icona. E dava

certezza. Era una certezza. Confermava insomma un'idea.

Che cosa cerco in questo quadro?

Tu sai che a un pittore l'immagine come soggetto o la sua rappresen-

tazione — come posso dire? — interessa fino a un certo punto. Anzi,

diciamolo, non gli interessa per niente. Tu sei il primo a capirmi.

Ciò che io cerco, anzi, ciò che non trovo in questo dipinto è la

centralità dell'immagine che contrassegna le tue tele: tutte, dalla

prima all'ultima. Ed è l'ipnotizzante simmetria che riassorbe e placa

l'accensione notturna dei tuoi colori. In questo "studio" invece c'è un

magma che frana dall'alto in basso a sinistra delineando per la prima

volta una greve diagonale. Ci sono i contrafforti a trattenerla o a

tentare di farlo con le spinte orizzontali di una nuvola distesa, di un

orizzonte, o di una fascia ranciata che fa pensare a una spiaggia.

Perché te ne parlo? Perché la composizione di questo quadro è

un'apertura, un errore positivo, il delinearsi di una trasgressione che

approderà a una "plastica chiarezza"...

Come vedi, ti parlo in gergo come quando si svelano segreti agli

amici, oppure come quando in sogno si parla con qualcuno di

affinità elettive. So che ritornerai su quella diagonale o su un'altra

"inclinazione scientificamente indeterminabile". Ci ritornerai anche

se la diagonale (a sedici anni me lo diceva qualcuno che adesso non

ricordo...) anche se la diagonale è la linea della passione, del dolore

voglio dire. Io so come amico che tu nella vita hai già sofferto la tua

parte, perciò non parlo di questo, parlo sempre della tua pittura;

dove ho l'impressione che tu voglia custodire un bene che è il tuo

risarcimento, la tua salvezza. Perciò ti stringi come un bambino

attorno all'invisibile asse centrale come fanno i fiori che dipingi in

riva al mare. E poi con la stessa ingenuità rivedi la luna di un tempo

o il sole appena scomparso all'orizzonte.

Ma io ti parlo — te l'ho detto — come si parla a un amico pittore nelle

pause serali, magari seduti d'estate a cogliere dopo i lampi di calura

il rotolare del tuono sull'altopiano calabro o friulano. E tu sei un

pittore nato, Ilario — ti confido anche questo — un pittore che, se

non deve perdere l'ingenuità che ha scoperto, specchiandovisi, nei

pittori viandanti della padania, non può non risalire, già uomo, la

diagonale del sublime calvario della pittura.

Credimi, hai tutta la forza per farlo.

Cari saluti.

Cervignano del Friuli, 25 luglio 1994

                                                                                                Giuseppe Zigaina

 

 

 

 

 

 

Le voci: I suoni. I colori. E respiri strani che sopravvengono e hanno mistero. Entrano

 nel mio pensiero nel vedere e nell’ascoltare.

 

………………..

egli è là o è lì

con sentimenti inquieti

protagonista della propria storia

o di una storia

oppure della storia di tutti (per un momento).

ponendosi per un momento al centro del mondo da restaurare.

Ogni quadro sembra il

racconto gridato di una conquista felice

(dopo cruenta battaglia)

una conquista dopo la fatica

illumina il giorno

per conquistare un luogo

in cui assidersi per respirare la pace ritrovata

come una perla nell’oceano

della violenza o anche solo di un dolore negletto.

Il riposo di un guerriero di quotidiane battaglie

che però ha già una nuova arma in pugno

per altri viaggi e nuove affaticate giostre del cuore.

Col quadro dà (si dà) fuoco al giorno

per furia di capire

stimolo acuto di ferire

per ebbrezza di vedere

e per non rendere in cenere le speranze.

Non dipinge ma canta o

parla a voce alta raccontando

il mondo.

I colori sono onde del suo mare

che si incontrano si scontrano si sovrappongono

per tracciare infine (per designare)

il viaggio dell’uomo (di un uomo)

da polo a polo – attraversando la vita.

…………………..

la foglia che scende

staccandosi appena dall’aria

con un sorriso (fremito) garbato e quando ha

raggiunto la libertà nel volo

con sorpresa e sorridente paura

si incendia avvampa si rotola nella luce

carpisce tutti i raggi possibili il

lume della luna (trasferendola in danza) il

riverbero di un fuoco contro il vetro di una finestra

in una casa nel bosco

o tutte le luci di un prato

(applausi e applausi fioccano

in questo spettacolo che scorre e si muove

e raccoglie danza danze di

colori che cantano

dentro a una neve mai caduta

mentre quella foglia ancora cade e cade

leggera senza implorare ma esaltando

poi all’improvviso strappando un frammento

di notte al giorno che si torce per questa splendida violenza

e mescolando luce e tramonto

e notte e alba improvvisa e

tutto sulla foglia si imprime

e diventa quadro

come fosse toccata dalla mano di un dio errante cantante irridente).

…………

la foglia troverà il tempo per fermarsi

nel volo? (indugiando a speculare il mondo che si torce?)

prima di ardere intera

consumata da una leggerezza memorabile e

dalla fragranza dei suoi colori

che si rispecchiano su altre mille foglie immobili

in attesa

dell’evento del volo?

resta confuso il mondo se non c’è luce del buono mattino

se una foglia non conserva pur vagando nell’aria

o ferma nell’aria

il suo fulgore di antichi vulcani (accesi spenti) e

se poi discesa nel giardino della terra travagliata

non si accompagna a tutte le foglie cadute per formare

la danza nuova per un tramonto che deve ancora arrivare

o per un’alba appena esplosa e giovanissima ancora

………………..

si può essere felici in un mondo

così affollato di colori?

affollato di foglie (che tendono a cadere)?

affollato di suoni?

o il colore che si stabilisce deciso

nel cielo o in un giardino o su una città affollata

o dentro a un cuore

tutto trattiene dispone e stabilisce?

sottraendo la speranza

o la verità

al declino dell’uomo

o della speranza dell’uomo?

....................

mi accorgo che così collocato

non potrei (non saprei) neanche inchinarmi

per raccogliere un sasso (o sassi)

e che la mia mano tende invece verso il colore del fuoco

un fuoco che s’alza (così a me pare)

non in pianura o su strade impervie su autostrada ma

nel folto di un bosco

dato che il verde (a me così pare) è carico è come esaltato

da tutti i colori verdi del bosco

(luogo di conturbante mistero).

è un verde che sembra acceso dal respiro, un alito,

del tempo. Degli anni.

Dove vive la memoria dei singoli umani che non si spegne.

questa pittura non si lascia sopraffare

proprio per la vitalità del suo segno

che leggo come un’esplosione ordinata

come un felice incontro (urto) con la natura ritrovata.

la leggo pure e la vedo

come il galoppo infuriato di un cavallo

sfuggito appena ai massacri di una lunga guerra

e adesso paziente e intrepido per riconquistare il sole.

…………….

partecipare alla libertà dell’uomo, di tutti.

 Roberto Roversi                  

 

 

 

 

 

(foto giorgio gambino - partic.)          

 

Efflorescenze, malinconie

Il sentimento espressivo si distende, deciso, nell'irruenza di un pigmento, nella fessura

d'una linea, sul rilievo di un contorno; ora sono occhi brillanti nell'insolita oscurità delle

ombre, ora l'impavido germoglio di un fiore o la cupola appena emersa di un paesaggio

mediterraneo. Ma sempre, il tutto, trattato e perfuso di energia, vitalisticamente compresso e

rappreso in un grumo, inserito in una tagliente pagina di vitale contrasto.

Ed ecco che la decennale pratica pittorica di Ilario Quirino, cosentino di formazione scien-

tifica, vivificando il suo approccio visivo in una apertura scenica prossima all'attrito tra pig-

menti freddi: dal rosso, al giallo, al verde, insieme profondati nel tenebrale circuito del nero,

va assumendo i caratteri di una personale, quanto inderogabile, visione del mondo, di un

necessario percorrere questa e non quella strada, al fine di segnare il punto di riconoscimen-

to della propria necessità creativa.

La volontà (così come la voluttà) di esacerbare attraverso il testo visivo il movimento e

l'analisi espressiva del segno, quel suo incidere, con l'uso continuo dell'acrilico sulla tela, e

quel manipolare, in maniera ansiosa, il gusto liquoroso che promana dal mondo, in una sorta

di ricreato naturalismo (da cui tutti abbiamo attinto dalla scuola francese di fine Ottocento),

e da quel moderno afferire, grazie ai suggerimenti picassiani, nella sfera di un esotismo e di

un tribale circuito dove si annidano le rarefatte pulsioni dell'uomo occidentale (a lui stesso

inconoscibili), indica come Quirino sia attento al frangersi del suo segno pittorico nel tragit-

to e nel commercio tra figura e natura.

E ancora tra assioma del colore e sua trasgressione, proprio nel momento in cui ciascuno si sente chiamato alla interpretazione, alla decodifica di un messaggio primordiale.

La sua coscienza neo-fauve, l'empito coloristico sottolineano la felice coerenza del suo percorso pittorico, delle sue partecipate frequentazioni intellettuali (da Gianquinto a Zigaina), del suo osservare, scrivere, per riflettere, sugli accadimenti pasoliniani, e da questi espungere la stessa orrifica sembiante che la tragica sacralità dell'esistere sembra riversare sul tragitto di ogni meditazione.

Una sorta di arcimboldesca efflorescenza, a volte, vestono le sue maschere, le figure offerte in volti o in sembianze arcaiche, ma sempre come travolte dalla frammentazione della linea, dallo scavare del marchio stridente, da quell'operare ossessivamente per arricchire lo spazio disposto dalla tela.

E, particolarmente, nei paesaggi, nei fiori, in certe coinvolte nature morte, si attesta l'esigenza di reclutare nel proprio bagaglio operativo un desiderio di espressionismo astratto di cui oggi si avverte una rinnovata necessità; anche per rileggere, con maggiore attenzione, quanto è stato fatto nel decennio compreso tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta.

Sono, allora, tali visioni pirotecniche a rigenerare nuovi oggetti, come scagliati da una imperscrutabile forza picrica nello svolgersi della notte, affinché possano prendere consi-stenza, forma, corpo, e, tenacemente, coinvolgere l'enclave della retina, il germe del deside-rio, e quello del gioco, e quello del sogno.

A volte Quirino sembra prendere il largo, per un disegno intimo di essenzialità, da poche tracce; il nero che chiude, di guttusiana memoria, o il verde amato da Levi (con quello stesso intenso amore visivo e carnale che lo scrittore torinese riversò sulla Lucania e sul Sud nella sua interezza culturale ed umana).

Su questi piani cromatici, che vogliono rispecchiare una fresca armonia spaziale, si addensa ancora la levigata convinzione che il colore assuma sempre maggiore respiro: un fiato sen-sibile di luminose sensazioni, pacate rammemorazioni. E se al gesto che attinge al 'decoro', si sovrappone l'irruenza emotiva, il tutto, in Ilario, sembra trovare riparo nelle vorticose profondità del nero o del blu, nella termografìa del rosso. Un gesto, a volte, ridotto a grido, ad evocazione dello sguardo sospeso da luce improvvisa, ad esplosione germinale di un malinconico, insistente aprirsi di petali.

Palermo, 12 settembre 2004

Aldo Gerbino       

 

 

 

 

 

 

Le vibrazioni cromatiche della natura

 

Chissà perché, ma i quadri più recenti di Ilario Quirino mi ricordano, per assonanza imma-ginifica, il "Sogno di una notte di mezza estate" di William Shakespeare e "II flauto magico" di Wolfang Amadeus Mozart, opere in cui magia, natura e uomini si mischiano dando vita a creature fantastiche e ad ambientazioni fiabesche.

Le antropomorfie di questo artista affondano le radici nel mito e nelle figurazioni grottesche tipiche del Rinascimento, sfruttando gli stessi miti e le stesse vibrazioni cromatiche e musicali che furono di Gianini e Luzzati anni addietro e che tanto riprendono le esplosioni cromatiche degli espressionisti tedeschi o dei fauves francesi.

Pennellate decise di colore puro attraversano la superficie della tela riempiendo di pigmento ogni microforo e avvolgendo ogni filo. Mentre nei quadri precedenti i rimandi ai grandi pittori europei del passato erano più evidenti, e consciamente dichiarati, ora l'artista cerca di affrancarsi da una corrente già storicizzata per rendersi artefice di un mondo ancora da sondare e dal quale cominciano ad apparire elementi carichi di una forte personalità che coniuga visioni e sicurezza cromatica. Il desiderio di dar ordine e forma al kaos si fa sempre più pressante e ancora di più si manifesta quel senso panteistico neoplatonico tipico dell'arte italiana.

Uomini-albero, foglie, paesaggi, si materializzano sulla superficie pittorica movimentando non solo lo spazio interno al quadro ma anche quello prossimo ad esso. Ogni pennellata sembra essere un'onda magnetica che si propaga nel vuoto colorando i pensieri di chi osserva.

Mentre in alcuni dipinti le campiture cromatiche appaiono controllate e racchiuse in binari e recinti, in altri esse si frantumano in segmenti luminosi che danno alla tela un apparente movimento, scaturito dalle pulsioni interne dell'opera stessa.

Nei lavori di Quirino i colori sono ben distinti tra loro, come se ci fosse un desiderio latente di incontaminazione, che lo porta a concepire il quadro come un insieme di singole unità in cui, pur sovrapponendosi, le stesure di pellicola pittorica mantengono intatte le proprie caratteristiche espressive. Nel turbine di queste frammentazioni, Quirino sembra non riuscire a rinunciare al blu che, giocando con la propria gamma, dà vita a profonde indagini spirituali e a leggère serenità mentali. Partendo dal celeste e percorrendo le vaste tonalità del turchese, dell'azzurro e del blu oltremare, egli approda, infine, al blu di prussia in grado di inghiottire ogni cosa.

Molte volte le opere di Ilario Quirino sembrano quasi campi di battaglia in cui l'antica lotta tra l'essere e l'apparire e i millenari tormenti dello spirito prendono forma attraverso l'accostamento improvviso di tinte calde e fredde.

Ma l'aspetto coloristico è solo uno dei tanti modi di vedere questi dipinti, in realtà un altro elemento, negli ultimi tempi, si è reso prepotentemente protagonista nell'opera di Quirino:la natura.

Se negli anni passati quest'ultima interagiva con l'uomo, ma rimaneva immutata nei significati e nel ruolo datele da esso, ora appare come presenza dominante in un mondo che a lei si è assoggettato. Quasi a controbattere una società industrializzata, l'artista evoca un tempo e un luogo in cui la natura riprenda il suo ruolo di dea genitrice, inizio e fine di qualunque cosa.

Palermo, 7 febbraio 2004

Vinny Scorsone        

 

 

 

Luigi Bianco

Da tempo io non so più cosa sia l'arte. So soltanto - genericamente - che l'arte

dovrebbe essere libertà e verità. Ma oggi libertà e verità sono concetti deprezzati: molto e

molto relativi.

In tale "confusione" è per me impossibile "inquadrare" un artista. Io guardo l'opera, e poi

aspetto.

Aspetto che i miei sensi rispondano in qualche modo: senza essere contaminati da schemi,

teorie, categorie, tecniche e poetiche.

In un primo momento – davanti alle opere di Quirino - i miei sensi sembrano non scattare: non

innervarsi nell'incanto del sentire e del dire. Poi una "verità" mi entra piano piano nelle vene

per  farmi esplodere in un'esclamazione di meraviglia: ma questo pittore si affida ancora

all'istinto!  

Un'affermazione-sensazione apparentemente ingenua e banale. Se... Se non sapessi che al

 di là di emozioni e visioni, di parole più o meno inutili, c'è la (ri)scoperta di una "virtù" oggi in

declinio.

I miei sensi non si sono fermati immediatamente sui colori, sulle forme, sulla tecnica, sulla

mai finita distinzione tra astratto e figurativo.

I miei sensi hanno raccolto una "verità" a monte. Direi una "verità" primigenia: in un momento

storico in cui l'istinto ha perso peso (come tante altre cose). In questo momento storico in cui

troppe "relazioni"  sembrano senza senso e significato (e gli uomini - tutti - non s'accorgono

 del terribile calo delle facoltà del sentire), conservare la potenza (e la libertà) dell'istinto è una

dote molto importante (determinante per un artista). Non si fa quasi più nulla d'istinto. Viviamo

 tutti ingabbiati inpiccoli (miseri) cieli razionali che ci "guidano" dall'alba al tramonto.

Persino chi spara crudelmente (e sono in molti a farlo) non uccide per istinto (per rispondere

comunque a un cattivo- barbaro sentire) ma per preciso e cinico calcolo d'utilità o per terribile

 indifferenza (che non è fuga nell'irrazionale: l'irrazionale è già scelta).

L'istinto non è mai finalizzato e non è mai indifferenza. Che sia in libera caduta in tempi in cui

siamo più o meno tutti finalizzati o indifferenti è una "verità" da non sottovalutare. Non credo

che Quirino si ponga questi problemi davanti alla tela o alla carta (forse il suo materiale

preferito).  Cioè: non si pone troppe domande. Le domande - se mai - le lascia alle sue

eccellenti capacità di scrittore e saggista (il suo recente libro "Pasolini sulla strada di Tarso"

è di quelli da incidere nella memoria) o alla sua attività di medico legale.

Davanti alla tela Quirino lascia a valle le sue significative esperienze di vita.

Dimentica la sua avventura esistenziale e si immerge nello spazio (e nei colori) per una nuova

Avventura che non conosce. Si immerge nello spazio e nei colori in libertà (ma anche in

"doveroso" rispetto): con quell'istinto che lo guida al di là di ogni tecnica o poetica. Con i colori

e la materia Quirino non deve dimostrare nulla e non propone ibridi sperimentalismi.

Quirino sogna. Sogna la mitologia dell'arte. Sogna le grandi pagine dei Fauves e degli

Espressionisti.  Sogna l'estrema libertà dei "giganti" solitari (da Van Gogh a

Ligabue) che al centro o dal margine hanno per sempre scosso l'umano sentire.

Sognando, la sua mano e il tradizionale pennello lasciano sulla tela o sulla carta segni liberi

che si inseguono, si ripetono, vanno in fuga, si fermano, ripartono: tesi non tanto a costruire

una forma quanto a percorrerne le strade della visionarietà  dell'arte.

Quirino è un pittore pittore (come ha ben capito un artista come Zigaina). Un pittore che crede

ancora nelle possibilità di comunicare con tele, colori e pennelli in tempi in cui le tante

Biennali mostrano tutto e il contrario di tutto (con esplosioni-invasioni di video, performances,

 installazioni e raffinatezze-diavolerie tecnologiche).

Allora: un pittore fuori tempo? No. Il tempo di Quirino non è quello della ricerca a tutti i costi

ma - ripeto - quello della mitologia dell'arte: e il mito di Picasso o Van Gogh resisterà sempre.

Mito - sia chiaro - non da copiare nelle forme o nella tecnica delle opere ma da stringere

amorevolmente nel sentire romantico.

Quirino parte sì dalla natura del suo territorio (la Calabria delle lune straordinarie e dalla

vegetazione sempre in movimento) ma l'istinto lo spinge irresistibilmente sulle strade

romantiche del mito.

Davanti alla tela agisce d'impulso: non costruisce, non premedita, non finalizza a interessi di

mercato o di critica. Lo dimostra con chiarezza il suo modo di procedere (per qualche aspetto

anche timido: proprio per la "riverenza" nei confronti dei miti della storia dell'arte).

Quirino inizia il suo lavoro con un tocco di pennello lento, poi aumenta ritmo e cadenza, poi

invade lo spazio, poi cambia colore e prosegue. I colori sono sempre puri e crudi (tempere):

rossi e verdi chiari e scuri, viola, celesti, blu, gialli, marroni.

Un arcobaleno intenso, persino violento: anche se il pennello non poggia con violenza sulla

 tela e sulla carta. Il segno calmo ma veloce diventa presto un rincorrersi di segnali che

sembrano persino squilibrati (quei segni sono forse gli omini dispersi di oggi?): anche se si

innestano squillanti e poi si confondono nella forma (mai del tutto definita) di un fiore o si

sciolgono in più distesi e poetici paesaggi lunari.

Il tocco di Quirino (quasi un curioso innesto tra il gesto materico di Morlotti e il segno

geometrico di Capogrossi) è come il rincorrersi delle ore che cadono monotone, sempre

uguali, a scandire un tempo saputo ma sempre atteso. Quirino sa soltanto - lo vede - che i

suoi tocchi crescono e potrebbero crescere all'infinito: perché il suo pennello ha sempre

voglia di cadere con serenità implacabile. Quando l'inseguirsi (l'infiammarsi) dei colori crudi

sembra perdere ogni possibilità di controllo, entra in scena l'istinto maturo del pittore

calabrese. E nasce il miracolo.

L'istinto si trasforma in capacità di trovare un equilibrio: capacità di lasciare sedimentare quel

rincorrersi multicolore indipendentemente dal "soggetto" dipinto. Quirino naviga nella

mitologia dei Fauves (quell'intreccio di colori intensi) ma con un modo tutto suo. Potrebbe

allargare il gesto nella deformazione espressionista o nell'apparenza figurativa-vegetale.

Invece si ferma, guarda, capisce. E da ultimo aggiunge un altro segno allo stesso modo ma

con un colore che illumina tutto il quadro: il bianco. L'arcobaleno diventa ancora più violento

ma l'istinto del pittore è placato: finalmente Quirino vede il suo sentire e pone termine all'opera

che sembrava mai finita.

Adesso il gesto è nel suo cuore: dopo che gli occhi si sono chiusi come per sfinimento (pur

nel ritmo pacato del pennello che lascia quel segno).

Non so se io sento con lui.

Personalmente sono distante dalla pittura pittura. Eppure quel rincorrersi di colori con semplici

segni del pennello entra nel mio divenire e inventa una visione del mondo e delle cose che

alla libertà dell'istinto appoggia la pulizia dell'uomo (e del pittore).

Quirino - ripeto - non si pone grandi domande davanti alla tela o alla carta ma i suoi segni –

risultato non indifferente - scavano domande profonde (mai banali).

Le sue "Crocefissioni" incendiate da tanti colori (soprattutto gialli) svelano con sentimento

il rapporto con la morte (e la religione). Un rapporto sereno, non drammatico. Come se la

morte fosse - infine - il realizzarsi di una vita: la salvezza e la resurrezione. Qui sorge

spontaneo il richiamo allo scrittore: quando - sulla scia di Zigaina - ci presenta un Pasolini che

vive in funzione della morte e si realizza appunto con la morte.

Sotto certi aspetti la fine di un'opera è un po' come la morte. Quando il segno infinito del

pittore si ferma, l'uomo è realizzato. Così immagino Quirino nel respiro della calma:in qualche

modo soddisfatto.

Se Pasolini ha organizzato e previsto la sua morte, Quirino (pur nelle grandi braccia

dell'istinto) probabilmente ha già organizzato e previsto la sua vita di pittore. L'ha organizzata

anche senza saperlo: sempre guidato da quell'istinto che non è meraviglia un po' naive ma

comportamento esistenziale che affiora dalla coscienza e dall'esperienza.

Qui risplendono la sua diversità e il suo genio. Qui l'artista incontra il suo destino (la sua

libertà).

Qui il pittore sente (nel momento del segno che avanza e si ferma libero) che "la morte è

stata inghiottita in vittoria". Che l'opera "morta" è inghiottita dalla vita (e dal mito eterno

dell'arte).

Qui l'uomo deposita l'anima crocefissa e canta in silenzio la sua vittoria.

 

Luigi Bianco       

    

 

 

 

 

 

recensione  Emilio Argiroffi

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