Da
tempo io non so più cosa sia l'arte. So soltanto -
genericamente - che l'arte
dovrebbe essere libertà e verità. Ma oggi libertà e
verità sono concetti deprezzati: molto e
molto
relativi.
In tale
"confusione" è per me impossibile "inquadrare" un
artista. Io guardo l'opera, e poi
aspetto.
Aspetto
che i miei sensi rispondano in qualche modo: senza
essere contaminati da schemi,
teorie,
categorie, tecniche e poetiche.
In un
primo momento – davanti alle opere di Quirino - i miei
sensi sembrano non scattare: non
innervarsi nell'incanto del sentire e del dire. Poi una
"verità" mi entra piano piano nelle vene
per
farmi esplodere in un'esclamazione di meraviglia: ma
questo pittore si affida ancora
all'istinto!
Un'affermazione-sensazione apparentemente ingenua e
banale. Se... Se non sapessi che al
di
là di emozioni e visioni, di parole più o meno inutili,
c'è la (ri)scoperta di una "virtù" oggi in
declinio.
I miei
sensi non si sono fermati immediatamente sui colori,
sulle forme, sulla tecnica, sulla
mai
finita distinzione tra astratto e figurativo.
I miei
sensi hanno raccolto una "verità" a monte. Direi una
"verità" primigenia: in un momento
storico
in cui l'istinto ha perso peso (come tante altre cose).
In questo momento storico in cui
troppe
"relazioni"
sembrano senza senso e significato (e gli uomini - tutti
- non s'accorgono
del terribile calo delle
facoltà del
sentire), conservare la potenza (e la libertà)
dell'istinto è una
dote molto importante
(determinante per un artista). Non si fa quasi più nulla
d'istinto. Viviamo
tutti ingabbiati inpiccoli
(miseri) cieli razionali che ci "guidano" dall'alba al
tramonto.
Persino chi spara
crudelmente (e sono in molti a farlo) non uccide per
istinto (per rispondere
comunque a un cattivo-
barbaro sentire) ma per preciso e cinico calcolo
d'utilità o per terribile
indifferenza (che
non è fuga nell'irrazionale: l'irrazionale è già
scelta).
L'istinto non è mai finalizzato e non è mai
indifferenza. Che sia in libera caduta in tempi in cui
siamo
più o meno tutti finalizzati o indifferenti è una
"verità" da non sottovalutare. Non credo
che
Quirino si ponga questi problemi davanti alla tela o
alla carta (forse il suo materiale
preferito). Cioè: non si pone troppe domande. Le
domande - se mai - le lascia alle sue
eccellenti capacità di scrittore e saggista (il suo
recente libro "Pasolini sulla strada di Tarso"
è di
quelli da incidere nella memoria) o alla sua attività di
medico legale.
Davanti
alla tela Quirino lascia a valle le sue significative
esperienze di vita.
Dimentica la sua avventura esistenziale e si immerge
nello spazio (e nei colori) per una nuova
Avventura che non conosce. Si immerge nello spazio e nei
colori in libertà (ma anche in
"doveroso" rispetto): con quell'istinto che lo guida al
di là di ogni tecnica o poetica. Con i colori
e la
materia Quirino non deve dimostrare nulla e non propone
ibridi sperimentalismi.
Quirino
sogna. Sogna la mitologia dell'arte. Sogna le grandi
pagine dei Fauves e degli
Espressionisti. Sogna l'estrema libertà dei
"giganti" solitari (da Van Gogh a
Ligabue) che al centro o dal margine hanno per sempre
scosso l'umano sentire.
Sognando, la sua mano e il tradizionale pennello
lasciano
sulla tela o sulla carta segni liberi
che si
inseguono, si ripetono, vanno in fuga, si fermano,
ripartono: tesi non tanto a costruire
una
forma quanto a percorrerne le strade della visionarietà
dell'arte.
Quirino
è un pittore pittore (come ha ben capito un artista come
Zigaina). Un pittore che crede
ancora
nelle possibilità di comunicare con tele, colori e
pennelli in tempi in cui le tante
Biennali mostrano tutto e il contrario di tutto (con
esplosioni-invasioni di video, performances,
installazioni
e raffinatezze-diavolerie tecnologiche).
Allora:
un pittore fuori tempo? No. Il tempo di Quirino non è
quello della ricerca a tutti i costi
ma -
ripeto - quello della mitologia dell'arte: e il mito di
Picasso o Van Gogh resisterà sempre.
Mito -
sia chiaro - non da copiare nelle forme o nella tecnica
delle opere ma da stringere
amorevolmente nel sentire romantico.
Quirino
parte sì dalla natura del suo territorio (la Calabria
delle lune straordinarie e dalla
vegetazione sempre in movimento) ma l'istinto lo spinge
irresistibilmente sulle strade
romantiche del mito.
Davanti
alla tela agisce d'impulso: non costruisce, non
premedita, non finalizza a interessi di
mercato
o di critica. Lo dimostra con chiarezza il suo modo di
procedere (per qualche aspetto
anche
timido: proprio per la "riverenza" nei confronti dei
miti della storia dell'arte).
Quirino
inizia il suo lavoro con un tocco di pennello lento, poi
aumenta ritmo e cadenza, poi
invade
lo spazio, poi cambia colore e prosegue. I colori sono
sempre puri e crudi (tempere):
rossi e
verdi chiari e scuri, viola, celesti, blu, gialli,
marroni.
Un
arcobaleno intenso, persino violento: anche se il
pennello non poggia con violenza sulla
tela
e sulla carta. Il segno calmo ma veloce diventa presto
un rincorrersi di segnali che
sembrano persino squilibrati (quei segni sono forse gli
omini dispersi di oggi?): anche se si
innestano squillanti e poi si confondono nella forma
(mai del tutto definita) di un fiore o si
sciolgono in più distesi e poetici paesaggi lunari.
Il
tocco di Quirino (quasi un curioso innesto tra il gesto
materico di Morlotti e il segno
geometrico di Capogrossi) è come il rincorrersi delle
ore che cadono monotone, sempre
uguali,
a scandire un tempo saputo ma sempre atteso. Quirino sa
soltanto - lo vede - che i
suoi
tocchi crescono e potrebbero crescere all'infinito:
perché il suo pennello ha sempre
voglia
di cadere con serenità implacabile. Quando l'inseguirsi
(l'infiammarsi) dei colori crudi
sembra
perdere ogni possibilità di controllo, entra in scena
l'istinto maturo del pittore
calabrese. E nasce il miracolo.
L'istinto si trasforma in capacità di trovare un
equilibrio: capacità di lasciare sedimentare quel
rincorrersi multicolore indipendentemente dal "soggetto"
dipinto. Quirino naviga nella
mitologia dei Fauves (quell'intreccio di colori intensi)
ma con un modo tutto suo. Potrebbe
allargare il gesto nella deformazione espressionista o
nell'apparenza figurativa-vegetale.
Invece
si ferma, guarda, capisce. E da ultimo aggiunge un altro
segno allo stesso modo ma
con un
colore che illumina tutto il quadro: il bianco.
L'arcobaleno diventa ancora più violento
ma
l'istinto del pittore è placato: finalmente Quirino vede
il suo sentire e pone termine all'opera
che
sembrava mai finita.
Adesso
il gesto è nel suo cuore: dopo che gli occhi si sono
chiusi come per sfinimento (pur
nel
ritmo pacato del pennello che lascia quel segno).
Non so
se io sento con lui.
Personalmente sono distante dalla pittura pittura.
Eppure quel rincorrersi di colori con semplici
segni
del pennello entra nel mio divenire e inventa una
visione del mondo e delle cose che
alla
libertà dell'istinto appoggia la pulizia dell'uomo (e
del pittore).
Quirino
- ripeto - non si pone grandi domande davanti alla tela
o alla carta ma i suoi segni –
risultato non indifferente - scavano domande profonde
(mai banali).
Le sue
"Crocefissioni" incendiate da tanti colori (soprattutto
gialli) svelano con sentimento
il
rapporto con la morte (e la religione). Un rapporto
sereno, non drammatico. Come se la
morte
fosse - infine - il realizzarsi di una vita: la salvezza
e la resurrezione. Qui sorge
spontaneo il richiamo allo scrittore: quando - sulla
scia di Zigaina - ci presenta un Pasolini che
vive in
funzione della morte e si realizza appunto con la morte.
Sotto
certi aspetti la fine di un'opera è un po' come la
morte. Quando il segno infinito del
pittore
si ferma, l'uomo è realizzato. Così immagino Quirino nel
respiro della calma:in qualche
modo
soddisfatto.
Se
Pasolini ha organizzato e previsto la sua morte, Quirino
(pur nelle grandi braccia
dell'istinto) probabilmente ha già organizzato e
previsto la sua vita di pittore. L'ha organizzata
anche
senza saperlo: sempre guidato da quell'istinto che non è
meraviglia un po' naive ma
comportamento esistenziale che affiora dalla coscienza e
dall'esperienza.
Qui
risplendono la sua diversità e il suo genio. Qui
l'artista incontra il suo destino (la sua
libertà).
Qui il
pittore sente (nel momento del segno che avanza e si
ferma libero) che "la morte è
stata
inghiottita in vittoria". Che l'opera "morta" è
inghiottita dalla vita (e dal mito eterno
dell'arte).
Qui
l'uomo deposita l'anima crocefissa e canta in silenzio
la sua vittoria.
Luigi Bianco
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